venerdì 4 maggio 2012

Il mio nome è Marko

Buonsalve a tutti! Come vi va la vita?! Spero bene...o almeno che teniate botta in questi giorni difficili (sapete la crisi, lo spread che sale, le jastemmie che crescono, i chitiebbivi che fioccano at volontade etc etc). Dovete sapere che io amo il calcio, ne sono coinvolto proprio dal profondo, ma in questi ultimi mesi stanno succedendo cose, tante, che mi stanno turbando parecchio: ultimo è l'aggressione fisica (diversi pugni) da parte di un allenatore (Delio Rossi) ad un suo giocatore che lo ha "offeso" (non so quanto gravemente). Non voglio entrare nel merito della questione, ho la mia idea ma la tengo per me...però volevo proporvi un testo che scrissi nell'ottobre del 2010, in seguito a degli scontri che avvennero a Genova, dopo la partita mai giocata tra le nazionali: Italia Vs Serbia. 
Ciancio alle bande o che dir si voglia, vi inserisco il testo qui sotto...si lo so è un po lungo però se avete la pazienza di leggerlo tutto, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensiate! Ciauz



"Il mio nome è Marko. Sono nato a Belgrado 27 anni fa e ho perso mia madre quando avevo 11 anni, saltata in aria su una mina anti uomo, e mio padre pochi mesi dopo, nella regione di Krajina, insieme ad altri mille serbi, trucidati senza alcuna ragione. A 12 anni avevo perso entrambi i genitori e ho rischiato più volte di morire di fame e freddo. Vivendo per strada si diventa uomini troppo presto e io fui costretto a lottare contro tutti per sopravvivere. Erano anni difficili quelli, il mio paese era continuamente in guerra contro i suoi vicini e questo non faceva che peggiorare la mia situazione. Un popolo in guerra è un popolo povero, non ci sono soldi, non c’è cibo, non c’è nulla che un bambino possa fare per tentare di sopravvivere. È stato inevitabile che la strada mi educasse a vivere di espedienti.
Ricordo ancora bene la prima cosa che ho rubato in vita mia: era una mela.  Non mangiavo da dieci giorni e lo stomaco oramai nemmeno brontolava più per i morsi della fame, non aveva più la forza di lamentarsi. Ero un cadavere ambulante, privo di forze, privo di speranze, quando vidi una mela, una grossa e rossissima mela. Quel frutto era scivolato via dalla busta di una signora ben vestita, che era inciampata e caduta rovinosamente per terra.  Mi bastò allungare la mano per fermare quella sfera rossa, che lentamente stava rotolando verso il selciato della strada. Ricordo che la nascosi velocemente sotto la maglietta strappata che indossavo da mesi. La signora mi guardò per qualche secondo, mentre freneticamente tentava di recuperare tutta la frutta che aveva perso dalla busta; non si era accorta di nulla. Dentro di me sapevo che la cosa giusta era restituirle la mela, ma fare la cosa giusta mi avrebbe fatto morire. Aspettai 3 lunghissimi e interminabili minuti, poi la signora scomparve dietro l’angolo e addentai quella mela. Quanto era buona non lo dimenticherò mai, la mela più buona che abbia mai mangiato in vita mia.
Da quel giorno compresi che per sopravvivere avrei dovuto rubare, iniziai con il cibo e continuai per qualche mese, poi cominciai con i soldi. Ero piccolo, non avevo ancora ben chiaro cosa fosse il denaro, ma compresi presto che, possedendo quei pezzi di carta, avrei potuto avere tutto ciò che desideravo: un paio di scarpe e, perché no, un giubbino che mi tenesse caldo durante l’inverno. Passarono gli anni, conobbi la prima cotta, poi il primo amore e infine la prima puttana che mi sverginò. Ero diventato un uomo a 12 anni, ma solo a 17 avevo capito che cosa poteva realmente darti una donna. Bevevo già da tre anni, soprattutto la mia adorata Brlja, la bevanda di noi poveri, l’unica cosa che realmente riesce a tenerti caldo, oltre alla vagina di una donna.
Il mio nome è Marko e sono un ultrà della Stella Rossa. Quando avevo 8 anni ero venuto in Italia, a Bari, per vedere la finale di Coppa dei Campioni vinta contro l'Olympique Marsiglia. Ricordo bene quel giorno, nonostante fossi ancora piccolo, provai una gioia immensa e da allora decisi che non avrei mai abbandonato quella squadra. Poi la mia vita cambiò radicalmente, i miei  morirono a pochi mesi di distanza da quel giorno e io mi ritrovai ad uccidere persone, per trovare soldi a sufficienza ed acquistare il biglietto per entrare allo stadio. Infondo una promessa è una promessa. Una delle poche cose che mi ha insegnato mio padre quando ero piccolo, è la fedeltà verso il proprio paese, verso la propria squadra, ma soprattutto ad onorare le promesse, a tutti i costi.
La situazione politica del mio paese sembrò calmarsi quando avevo circa 14 anni, ma la condizione non migliorò così tanto per me. Continuavo a mantenere il mio solito tenore di vita, l’unico possibile per un ragazzino senza padre, madre e alcuna figura di riferimento. In questi anni sono cresciuto molto, non rubo più alla gente, ora ho un lavoro fisso che mi permette di avere un tetto sulla testa e di spassarmela quanto voglio, ho tanti buoni amici con cui condivido l’amore per la Stella Rossa e un ottima clientela. Lo spaccio di droga frutta bene, basta trovare le giuste dimensioni e non dare fastidio alle persone sbagliate.
Nonostante questo periodo di pace però, un bel giorno, dei contadini senza soldi e senza alcuna gloria hanno deciso che una parte del mio paese non doveva essere più della mia gente. Un giorno si sono svegliati e hanno deciso “unilateralmente” che il mio territorio, quello del mio paese, quello dei miei antenati, non era più mio e hanno deciso di proclamare l’indipendenza, fottendo a me e ai miei fratelli serbi la terra.
In pochi anni sono riusciti a buttare merda sul mio paese, sul presidente del mio stato, chiamandolo addirittura “mostro” o “criminale”, semplicemente perché ha tentato in tutti i modi di riappropriarsi di una cosa nostra, che ci è stata indebitamente sottratta.
Odio profondamente quei contadini, li odio perché dal basso del loro viscidume sono riusciti a portare via la terra ai miei fratelli serbi, li hanno derubati e mandati via di casa senza una ragione. Quei contadini dovrebbero pensare solo a lavorare la terra e incularsi qualche capra, invece di arrogarsi qualche assurdo e inesistente diritto. Loro non hanno diritti, sono solo dei contadini.
Io rivoglio quelle terre, rivoglio il Kosovo e qualcosa farò, la farò insieme ai miei fratelli della Stella Rossa. La pensiamo tutti così, perché è giusto. Quella è la nostra terra, quella è la nostra patria. La Serbia ha bisogno dei suoi figli, l’hanno deturpata, ferita in diverse occasioni, ma la nostra patria, la nostra nazione tornerà a vivere in gloria grazie ai suoi figli, grazie a me.
Oggi dopo 19 anni sono di nuovo in Italia, in una città chiamata Genova. Sono al seguito della mia nazionale di calcio, al seguito di 11 donnicciole che stanno infangando il nome della mia nazione. La settimana scorsa hanno perso 3 a 1 in casa contro l’Estonia, una vergogna inaudita e oggi la devono pagare.
Noi siamo i figli di Arkan, le sue tigri, i sostenitori della Stella Rossa, gli ultimi discendenti della vera Serbia, noi la riporteremo in vita e inizieremo dalla nazionale. Stasera abbiamo dato spettacolo in campo, abbiamo fermato quello scempio di partita. I giocatori devono capire che il calcio non è un gioco, il calcio è vita vera. Se loro perdono, perde tutta la Serbia, l’onta della vergogna ricade su tutti noi, non solo sui loro nomi e per questo devono pagarla. Devono avere paura quando scendono in campo, devono capire che la vittoria è l’unico risultato che compete alla Serbia, alla mia gloriosa Serbia. Ho speso 21mila dinari in fumogeni e petardi, abbiamo tagliato la rete della gabbia e sfondato un vetro dello stadio, mentre tutto il mondo ci guardava esterrefatti: siamo riusciti nel nostro scopo.
Ora sono qui, fuori lo stadio, la notte copre i colori del giorno e davanti a me vedo un plotone di poliziotti, guardo nei loro occhi e non vedo altro che terrore. Hanno paura di noi, ci guardano da lontano e non potrebbero fare altro. Se tentano di avvicinarci diamo fuoco alla città! Io non ce l’ho con loro, loro non mi hanno fatto nulla, ma se mi attaccano io risponderò per le rime. È questo che fa un vero ultrà: non si piega davanti a nulla e io non mi piegherò.
Stringo tra le mani una bomba carta, sono pronto ad accenderla e a combattere… in nome della Serbia."

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